Azienda “ficcanaso” e Lavoratore “infedele”: chi la spunta?
Con sentenza n. 2636 del 10 giugno 2019, il Tribunale di Bari riteneva legittimo il licenziamento di una dipendente che, avendo installato sullo smartphonedi lavoro l’applicazione Facebook Messengercon sincronizzazione dell’account personale, aveva “chattato” in mala fede con concorrenti di settore, arrivando persino a rivelare informazioni aziendali riservate.
Nel caso di specie la dipendente, causa malattia, aveva restituito temporaneamente il cellulare aziendale al proprio datore di lavoro che, incuriosito dal continuo arrivare della messaggistica targata Zuckerberg, sbirciava l’accountdella Signora notando l’impropria diffusione da parte della stessa di numerosi segreti aziendali.
Per tali motivi il datore di lavoro si prestava a “screenshottare” tutte le conversazioni di Facebookdella dipendente, proponendole in giudizio a seguito del ricorso depositato da quest’ultima contro il licenziamento.
Il Giudice barese riteneva perfettamente integrata la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c. per mancato rispetto dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. che prevede: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
Già da tempo, infatti, gli screenshotsdelle conversazioni sono entrati prepotentemente nel campo delle prove documentali, con il conseguente sdoganamento giurisprudenziale dei c.d. Social(per esempio nel 2017 il tribunale di Catania ha considerato legittimo un licenziamento avvenuto mediante whatsapp…).
Nel suo corpo, la sentenza summenzionata ribadiva come venga assicurata al datore di lavoro la possibilità di controllare i devicesaziendali forniti in dotazione ai dipendenti e, che tali evidenze (nello specifico gli screenshotdella Chat di Facebook), avevano ormai irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario.
Ma cosa prevede al riguardo l’interpretazione congiunta del Diritto del Lavoro e della Privacy, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’ormai celeberrimo GDPR?
Seguendo l’art. 4 della Legge n. 300 del 1970 (così come modificato dall’articolo 23 del D.lgs. 81/2015) e il principio di trasparenza in materia di protezione di dati personali, si evince che il datore di lavoro ha il diritto di controllare le apparecchiature tecnologiche riservate ai propri dipendenti, ma ha anche il dovere di informare preventivamente i lavoratori sulle precise modalità in cui il controllo medesimo viene effettuato; questo checkingdei devicesaziendali forniti al dipendente, inoltre, non potrà mai essere massivo e dovrà essere giustificato da esigenze aziendali comunque limitate nel tempo.
Infine, il controllo potrà avvenire per finalità disciplinari solo ed esclusivamente sull’ email accountaziendale e non su quello personale (ivi compreso per analogia l’accountsocialprivato), come stabilito dalla Cassazione con sentenza n. 13057 del 31 marzo 2016.
Giova anche ricordare l’Ordinanza n. 21965 del 10 settembre 2018 della Suprema Corte che stabiliva: “(…) come ribadito dalla Corte Cost. nella sentenza n. 20 del 2017, il diritto tutelato dall’art. 15 della Cost. “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”; (…) che quindi l‘esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati; (…)”.
Ferma restando la doverosa censura della condotta della dipendente (a- non possono essere installati videogamese chatpersonali sullo smartphoneaziendale; b- l’obbligo di fedeltà nei confronti del proprio datore è un dovere sacrosanto), a parere di chi scrive appare oltremodo pericoloso il voler “giustificare” un datore di lavoro che, al fine di controllare eventuali conversazioni lesive della propria azienda, decideva arbitrariamente di accedere alla vita privata di un suo dipendente, utilizzando senza alcuna autorizzazione il suo personale accountdi Facebook.
Vero, in questo caso il dipendente oggetto delle “particolari” attenzioni si dimostrava scorretto ed “infedele”; ma in quanti altri casi questo controllo Socialpotrebbe portare esclusivamente ad una pesante ed ingiustificata violazione della sfera personale dell’individuo?
Avv. Stefano Alberto Brandimarte